Il clero alle terme: l’Abate Ilarione Rancati

Il 30 giugno 1645 giunge a San Casciano l’Abate Ilarione Rancati, ospite nel palazzo dei Giuliani; tornerà a curarsi con le nostre acque il 2 luglio 1647, ospite questa volta di Bartolo Bartali.

La presenza di prelati sia secolari che regolari è una costante numerosa fra i bagnajoli che venivano a curarsi alle nostre terme nei secoli XVII e XVIII, il loro arrivo era certamente facilitato dalla vicinanza a Roma e dal fatto che ci trovavamo lungo la direttrice che dal nord Italia portava a Roma.

Abbiamo già incontrato due Cardinali nei loro soggiorni sancascianesi: Federigo Borromeo, Arcivescovo di Milano, e Jean-François Paul De Gondi, Arcivescovo di Parigi, oggi parliamo di un altro milanese, Ilarione Rancati.

Ad incuriosirci è stato subito un piccolo particolare legato ai suoi genitori, Bartolomeo (che da frate prese poi il nome di Ilarione) nacque a Milano il 2 settembre 1594 da Baldassare Rancati e da Margherita che di cognome faceva nientemeno che “de’ Bagni”, se non fosse che Angelo Fumagalli (1) specifica che entrambi i genitori erano “onesti cittadini Milanesi, e di beni di fortuna bastevolmente agiati”, quel cognome per noi sancascianesi avrebbe suscitato mille fantasie, rimane il fatto che ci suona sicuramente familiare.  

Bartolomeo (Ilarione) ebbe la possibilità di studiare, grazie alle disponibilità dei genitori, all’Università di Brera, il 10 marzo 1608 entrò nel Monastero di Chiaravalle di Milano nell’Ordine dei Cistercensi cambiando il nome in Ilarione. Terminati i due anni di noviziato continuò gli studi filosofici nel Monastero di Sant’Ambrogio, sempre a Milano, e si specializzò inoltre nella lingua greca, ebraica, francese e spagnola. Nel 1614 fu inviato a Salamanca per approfondire gli studi teologici. Nel 1618 fece ritorno a Milano ed iniziò ad insegnare teologia presso il Monastero di Sant’Ambrogio, ma ben presto iniziarono i suoi problemi di salute, che poi lo porteranno anche a San Casciano, ma dapprima i suoi superiori pensarono che fosse utile fargli cambiare aria trasferendolo, nel maggio del 1619, a Roma nel Monastero di Santa Croce in Gerusalemme. Il primo impatto con il clima della Città Eterna non fu il migliore per la sua salute, anzi “dalle sue consuete indisposizioni fu gagliardemente sorpreso, le quali di sua vita fecero temer molto”. Superata la crisi prese ad insegnare Teologia nel Monastero di Santa Croce in Gerusalemme ed a studiare le lingue araba e siriaca. La passione e lo studio delle lingue saranno il punto di forza di Ilarione, tanto da ricevere incarichi e riconoscimenti da ben quattro Pontefici: Paolo V, Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII ed il ricordo di un quinto Papa, Clemente IX. I primi a ricorrere alla sapienza di Ilarione furono i Cardinali Ottavio Bandini, Ottavio Orsini e Roberto Bellarmino di Montepulciano., impegnati a rivedere il Breviario Siriaco dei Maroniti libanesi. La preziosa collaborazione con i tre Cardinali fece conoscere Ilarione in tutta la corte pontificia, legandolo in modo particolare con il Bellarmino. Dopo aver corretto anche la Liturgia dei Maroniti su ordine di Paolo V, fu poi urbano VIII a ricorrere in maniera sistematica ad Ilarione, ricompensandolo con il titolo di Abate del Monastero di Santa Croce in Gerusalemme nel 1626. Dopo essersi applicato nelle questioni teologiche e liturgiche maronite, fu nominato in varie Congregazioni, compreso il Sant’Uffizio (Inquisizione) nel 1624 , una nomina particolare perché di solito era occupata da membri degli Ordini Domenicano e Francescano; fu poi nominato Segretario della Congregazione istituita per la conservazione della fede cattolica in Inghilterra ed Irlanda. Nel 1651 fu chiamato ad occuparsi del contrasto al movimento religioso giansenista.

Ilarione Rancati ebbe anche un altro punto di contatto con la nostra Comunità e fu la devozione verso il dogma dell’Immacolata Concezione, devozione che a San Casciano si esplicava nella presenza dell’omonima Compagnia Laicale e nella loro chiesa alla Contrada del Borgo (al Pozzo). Tale devozione di Ilarione era riconosciuta dallo stesso Pontefice Alessandro VII che lo presentò all’Ambasciatore di Spagna come “uomo di gran pietà e dottrina, ed insieme divotissimo del Mistero dell’Immacolata Concezione della Vergina Maria”.

Il Granduca di Toscana Ferdinando II così si esprimeva nei confronti di Ilarione Rancati: “uno de’ più eminenti Soggetti, che io abbia mai conosciuto fra i Religiosi, e tanto amato, e stimato da me, che vorrei avere continuate occasioni di fargli piacere”.

Fu più volte sul punto di essere creato Cardinale senza mari raggiungere la carica, dapprima per problemi di invidie e gelosie, poi per la sua cagionevole salute. Nonostante tutto ebbe alcuni voti in occasione del Conclave che portò all’elezione del Cardinale Fabio Chigi, e fu lo stesso Alessandro VII a rivelarlo come segno di stima verso l’Abate Rancati.

Ma di cosa soffriva Ilarione? Il Fumagalli ce ne ricorda alcune: “Le più frequenti però, le più penose, e gravi infermità del Rancati, furono la podagra, le ostruzioni, e l’ipocondria, da cui non si potè mai del tutto liberare”. A curare l’Abate provarono i più valenti medici romani: “Paolo Zacchia, il Cavaliere Benedetto Selvatico, Giovanni Nardio, il Poterio, l’Albanesio, il Dardamone, e alcuni altri”. Interessante è anche l’estratto di una lettera del Rancati all’Arcivescovo di Milano Alfonso Litta con la quale descrive una delle tante cure tentate per recuperare la salute: Avendo io per guarire dalle ostruzioni, e dalla ipocondria fatto, ed usato con molto mio giovamento il vino d’acciaro, passai con il discorso a promettermi utile maggiore dal vino fatto con l’oro, perché mi persuasi, che siccome l’acciaro metallo di sostanza più dura aveva comunicato la sua virtù al vino, così la comunicherebbe l’oro, il quale per essere più molle, e maneggevole mostra di comunicarla più facilmente. Ecco dunque a V. S. Illustrissima ambidue i mezzi da me praticati nel fare tanto il vino d’acciaro, quanto quello d’oro, e l’effetto, che indi ne seguì. E primieramente per quanto s’aspetta al primo, posi in un tinozzo tanta uva bianca, quanta bastar poteva per fare due barili di vino: quando poi cominciò a bollire il mosto, v’immersi dentro una libra e mezza di acciaro limato sottilmente, e segatolo in un pannolino fottile, ma fitto assai, tanto lo lasciai star dentro appeso ad una cordicella, finché durò il bollimento del mosto. Cavato questo al suo tempo solito, e messolo in un caratello vi posi parimenti appeso quell’acciaro, e ve lo lasciai infino a tanto, che cessò di bollire il vino; e poi per il tempo di Natale cominciai a beverne a tavola un bicchiere per la prima bevuta, e conobbi, che senza avere il vino mutato punto del suo natural colore, odore, ovvero sapore, aveva preso la virtù dell’acciaro, non solo perché le mie fecce restavano tinte come quelle di coloro, i quali in altri modi pigliano l’acciaro ma molto più, perché lasciato per due ore quel vino in una caraffa, pigliava il colore , l’odore, ed il sapore dell’acciaro, sebbene l’acciaro, che vi aveva bollito dentro, non fosse scemato di peso nemmeno d’un grano. Quasi nella stessa maniera mi provai a fare il vino d’oro: cioè presi altrettanta uva, ed in oro da cento settanta Ongari, ma per giusti-motivi non ho voluto limarli, privandomi così di quell’utile, che sarebbe stato senza dubbio maggiore, se di quelli ne avessi fatta limatura d’oro. Questi Ongari dunque dentro di un panno lino involsi, appesi, lasciai, e cavai come fatto avevo con l’acciaro, li quali, siccome avvenne con questo non perdettero punto di suo peso. Riuscì il vino di colore d’oro, di sapore gratissimo, ed un poco dolce, e di vigore, e gagliardia assai maggiore dell’altro fatto colla medesima sorta di uve. Fu per questo conto assaggiato il vino con ammirazione da due eccellentissimi Medici di questa Città Paolo Zacchia chiaro per li suoi molti scritti dati alle stampe, ne’ quali nella impressione seconda di Amsterdamo nel libro primo de’ mali ipocondriaci al capo ultimo racconta quest’esperimento; l’altro Medico fu Silvestro Colicola, che lo fu di Papa Urbano VIII. Ambidue dopo alcune altre osservazioni, ne fecero distillare mezzo un boccale da un uomo di lunga pratica, e perciò accreditato in quell’arte. Questi senza sapere cosa fosse dentro di quel vino, lo distillò e poi disse di non avere mai a giorni suoi distillato un vino simile, né fatto una più eccellente acquavite. Bevetti di quel vino a tutta la tavola, sperando che non avesse a nuocere come gli altri vini; ma anzi a giovare alle mie infermità articolari: ma non fu così, perché avendo io già da molti anni tralasciato l’uso del vino, si risentì la natura; onde lasciai di beverlo e non l’ho più fatto, sebbene que’ due Medici stimassero, che potesse negli altri effetti imitare in gran parte l’oro potabile tanto celebrato da’ Chimici, e perciò anco accrescere il calore naturale, ed allungare la vita. Ma la mia è di così picciolo prezzo, che non ho stimato conveniente l’usare arte veruna per prolungarla, come uso tutte quelle, che so per passarla con minori impedimenti, e dolori della podagra, e ľho conseguito mediante l’astinenza totale dal vino: sebbene non per tanto lascio di patirne di tempo in tempo, ma assai più di raro e più comportevolmente, che non facevo quando beveva vino, ancorché parcamente, e bene inacquato. Se questa bevanda riuscirà profittevole a V. S. Ill.ma, potrò chiamare benedette le mie infermità, le quali hanno dato occasione a questa isperienza; ed a Lei non mancherà la possibilità per farla più diligentemente con l’oro limato; anzi ciò richiederebbe la convenienza per allungare così la di lei vita, che importa tanto per il benefizio di codesta grande Chiesa; onde la conservazione di essa non si deve proccurare solamente con l’oro, ma con le orazioni ancora, le quali io rinato figlio di codesta Chiesa con istanze grandissime porgo a Sua Divina Maestà”.

Tra tutte le pratiche mediche messe in campo per far ritrovare la salute al Rancati si annoverano anche i due soggiorni termali a San Casciano. Come e con quali delle nostre acque si sarà curato?  Per le ostruzioni e l’ipocondria molto probabilmente avrà fatto uso in bevanda dell’acqua della Ficoncella o di quella del Bagno Grande, se non di entrambe come avveniva in certi casi. Per quanto riguarda la podagra è probabile un utilizzo dell’acqua di Santa Maria.

Agli inizi del 1663 la salute di Ilarione peggiora, il 28 gennaio, viene assalito da una febbre altissima che, per via dell’età e del fisico debilitato, faceva temere il peggio. Iniziò così una lunga processione di nobili, prelati e cardinali che andavano a visitare l’Abate in fin di vita. L’Ambasciatore di Spagna ordinò al suo medico personale di visitare Ilarione ogni giorno, la Regina di Svezia Cristina fece lo stesso con il proprio medico, ed anche il Papa Alessandro VII mise a disposizione il suo medico, Monsignor Naldi, inviando anche Monsignor Accaniggi ad esprimere al Rancati la sua vicinanza. “Ma tutte le cure, tutte le assistenze e tutti i rimedj col medesimo praticati non furono bastevoli ad impedire, che il male non prendesse sempre maggior forza e vigore, col quale dopo avere il P. Abate per ottanta continui giorni sostenuto aspro conflitto, fu finalmente costretto egli cedere alli 17 d’Aprile, nel qual giorno fatta di nuovo la confessione delle sue colpe, e ricevuti con istraordinari segni di pietà e divozione i Sacramenti dell’ Eucaristia ed Unzione estrema , siccome pure la Benedizione Papale, che gli fu data da Monsignor Naldi, tra le lagrime degli afflittissimi suoi Monaci, in età d’anni 68 mesi 7 giorni 15 passò verso la mezza notte da questa a miglior vita, lasciando a tutti di se stesso un gran desiderio per le singolari egregie sublimi doti, di cui era egli fornito abbondevolissemamente”. Fu tumulato nella Basilica di Santa Croce.

(1) Angelo Fumagalli, Vita del P. D. Ilarione Rancati milanese dell’Ordine Cistercense, Brescia 1762.

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