Il Cardinale Federigo Borromeo

Cosa c’entrano i Promessi Sposi con San Casciano? Nulla, con l’eccezione di un personaggio importante del romanzo. Un personaggio storico che, nella trama del romanzo, si può considerare il risolutore della travagliata vicenda amorosa tra Renzo e Lucia: il cardinale Federigo Borromeo (1564 – 1631), Arcivescovo di Milano.

Federigo nacque a Milano il 18 agosto del 1564, cugino minore (erano 28 gli anni di differenza tra i due) di Carlo Borromeo Cardinale e Arcivescovo di Milano, già in odore di santità ancora in vita. Federigo, rimasto orfano da piccolo, fu cresciuto ed indirizzato alla carriera ecclesiastica dal cugino.

Fu nominato Cardinale nel 1587, grazie anche al posto lasciato libero da una vecchia conoscenza di San Casciano, il cardinale Ferdinando de’ Medici che, per assicurare la continuità al trono granducale per l’improvvisa morte del fratello Francesco I, abbandonò la porpora cardinalizia per assumere il governo della Toscana e poter sposare Cristina di Lorena.

Nel 1595 Federigo Borromeo fu nominato Arcivescovo di Milano, dove si trovò a proseguire l’azione del cugino Carlo, morto nel 1584 e per il quale era già iniziata un veloce processo di canonizzazione (divenne beato nel 1602 e santo nel 1610). Era questa la difficile epoca dell’applicazione dei principi della controriforma stabiliti dal Concilio di Trento che si era concluso pochi decenni prima (1563), della lotta all’eresia ed alle idee protestanti e dallo scontro con le autorità civili del Senato milanese e con i governatori spagnoli sulle prerogative giurisdizionali fra il potere ecclesiastico e quello civile. Anche questo scontro ricorda molto da vicino quello in atto, nello stesso periodo, a San Casciano tra le autorità civili ed i tre Porzionari di San Guglielmo sulle nomine e, soprattutto, sulla titolarità circa l’assegnazione delle vaste terre che costituivano il patrimonio della chiesa sancascianese. Ad avvicinare le dispute milanesi e sancascianesi è anche la data di risoluzione: il 1617 per quelle meneghine con la firma del Re di Spagna, e il 1618 con la fondazione della Collegiata per le nostre.

Ma a legare Federigo Borromeo a San Casciano ovviamente non possono essere state solo queste piccole coincidenze, ma la sua frequentazione alle nostre terme ripetuta varie volte nei primi anni del XVII secolo.

Una prima visita, documentata, è stata nell’autunno del 1600, una seconda dal 13 luglio al 22 agosto 1601. Non si possono escludere altri soggiorni dato che i medici romani gli consigliavano di stare lontano da Roma per curarsi con bagni e soggiorni in luoghi freschi.

Ma di cosa era malato il Cardinale? Paolo Pagliughi nella sua biografia di Federico Borromeo ci dice che si trattava di un “mal di guancia” molto doloroso e che si acutizzava in estate e nei periodi di maggiori preoccupazioni, ipotizzando che fosse frutto di somatizzazioni dovute a forte stress o emofilia nasale dovuta alla rottura dei vasi sanguigni per alta pressione. Sempre il Pagliughi ricorda altri due episodi di malattie sofferte da Federigo: un problema agli occhi nel 1597 e catarro nel 1598.

Con quali delle nostre acque si curava? Anche questo non è dato saperlo, l’unico indizio ci viene dalla lettera che Federigo scrive a suo fratello Renato nell’estate del 1601: «Domattina berrò l’acqua, se però non sarà stata alterata da una pioggia di oggi». Le uniche tre sorgenti dove era prevista la cura tramite la bevuta dell’acqua erano la Ficoncella, il Bagno Grande ed il Bagno Bossolo. Vittorio Manni nel suo volume ricorda la presenza del Borromeo ma non ci dice di quale acqua si servisse.

Rileggendo i testi coevi sulle nostre acque termali (Schiavetti, Manni, Ghezzi e, anche se un po’ più tardo, Bottarelli) si potrebbe pensare che l’acqua utilizzata fosse quella del Bagno Bossolo particolarmente utilizzata per tutte le affezioni localizzate nella testa, dall’udito alla vista, ed in particolare, come ricorda il Bottarelli, «giova alla paralisia non solo della lingua, quanto di ciascuno altro membro del corpo, alle convulsioni, e tortura della bocca, alla flussione corrosiva che spesso fluisce alle gengive, all’addormentamento delle parti nervose, all’asma di ogni spece, effetti che rimangono per lo più da qualche lue gallica, come l’asma, e la corrosiva flussione delle gengive, con l’addormentamento di nervi: soccorre a tutto ciò quest’acqua, disseccando l’umidità superflua, che si ravvisa potentissima causa di tutti gli accidenti suddetti, quando però derivi dalla testa il fluire degli umori come nell’asma per la distemperanza di essa».

Di sicuro sappiamo dove è stato ospitato, almeno per il soggiorno del 1601: presso il Convento dei Cappuccini da poco costruito (la prima pietra fu posata il 18 ottobre 1579), benchè fosse anche piccolo (poteva ospitare dodici frati, aveva una propria chiesa con un unico altare dedicato alla Deposizione di Gesù, esternamente vi era anche una cappella intitolata a Sant’Orsola destinata alla sepoltura dei cappuccini) non venne disdegnato dal Cardinale che anche in gioventù preferiva ritirarsi a meditare nei conventi della sua diocesi.

Nel soggiorno sancascianese del 1600 il Borromeo incontra il pittore senese Francesco Vanni (1563-1610) che gli fa scoprire un personaggio della Siena tra il ‘500 ed il ‘600 e che metterà ancora in contatto il Borromeo con San Casciano.

 Il secondo personaggio di questa storia è una suora senese, Caterina Vannini (1562 – 1606). È di lei che il pittore Francesco Vanni parla a Federigo Borromeo nell’autunno del 1600 a San Casciano, ne nasce un’amicizia che porterà il Cardinale a scriverne la biografia (ne aveva anche un’altra pronta, ma morì prima di concluderla, quella della famosa Monaca di Monza, al secolo Marianna de Leyva, la cui storia, seppur con nomi diversi, è riportata nei Promessi Sposi). Ed è Caterina a pregare ed ottenere la grazia per il Borromeo sul recupero della salute quando, proprio di ritorno dal soggiorno sancascianese del 1600, arriverà a Siena moribondo.

A differenza della più famosa Caterina Benincasa, la Santa senese della seconda metà del XIV secolo, la Vannini non arrivò alla vita monastica seguendo un lineare percorso vocazionale, anzi.

Già ad undici anni gli uomini erano attratti dalla bellezza di Caterina e, complici le ristrettezze economiche di una famiglia benestante caduta in disgrazia, divenne ben presto una ricercata cortigiana. A questo punto Siena non poteva andar bene, la nobiltà del casato di Caterina mal si addiceva alla nuova professione e quindi si trasferì a Roma dove «andava insieme con gli anni crescendo nella malizia, ed ogni dì più l’onore, e il suo buon nome perdendo, e ne più cupi pelaghi de’ concupiscibili appetiti ingolfandosi», così descrive la vita romana di Caterina il Borromeo. Insomma a Roma ebbe un notevole successo.

Vuoi per la comunque giovane età (aveva appena dodici anni), vuoi per qualche rimorso di coscienza, ogni tanto aveva dei dubbi sulla vita che conduceva. Il Borromeo ce ne ricorda tre: il primo, quando gli parve di veder risplendere l’immagine della Maddalena, la santa protettrice delle prostitute, che teneva in casa e che la turbò molto; il secondo, quando tentò il suicidio gettandosi in un pozzo nei sotterranei della sua casa ma una mano, che lei attribuì alla Madonna, la trattenne dal gettarsi nel pozzo; il terzo, quando fuori da una chiesa trovò tre fanciulli che chiedevano l’elemosina e lei si rese conto che, di poco più grande di loro, stava facendo una vita sbagliata e sentì il bisogno di convertirsi.

Ma i buoni propositi di Caterina si scontravano con la vita reale, quindi continuò a fare la sua vita ed i clienti aumentavano di numero, così come aumentavano le spese che facevano per averla, in una sorta di gara fra loro che portava alla rovina dei loro patrimoni. La situazione era divenuta insostenibile ed il Papa Gregorio XIII nel 1574 ne ordinò l’arresto. Chiusa in una cella piccola, umida e buia, Caterina si chiuse in un orgoglioso silenzio, rifiutando qualsiasi agio che le poteva derivare dalle pressioni che i suoi amanti facevano al Papa stesso. Solo dopo aver contratto una brutta bronchite accettò di essere trasferita in una cella più sana. Anche il Papa si convinse che era il caso di intervenire e propose a Caterina due soluzioni per uscire dal carcere: sposarsi con uno dei suoi amanti o farsi suora ed entrare o nel monastero delle Malmaritate o in quello delle Convertite. Caterina rispose picche, non si sarebbe sposata o fatta suora per forza e, se avesse voluto farsi suora, lo avrebbe fatto a Siena. Il Papa, nonostante tutto, la fece scarcerare ma la bandì da Roma e Caterina, seppur ancora malata fece ritorno a Siena. Dopo un breve periodo nel quale tornò a fare la cortigiana, nel 1575 avvenne la conversione, per nove anni fece vita ritirata e piena di mortificazioni nella propria casa, per poi entrare nel Monastero delle Convertite nel 1584 (le Convertite erano prostitute redente che avevano abbandonato la professione). Le condizioni di vita nel Monastero erano dure, Caterina le scelse ancora più dure: volle vivere in una piccolissima cella senza luce e senza vedere nessuno, ci rimase per quattro anni finché l’arcivescovo di Siena Ascanio Piccolomini non la costrinse ad uscire. Si “trasferì” quindi in una cella un poco più grande con una finestrella che dava sulla chiesa conventuale e dalla quale assisteva alle funzioni religiose e da dove poteva parlare con quanti, ed erano molti, volevano incontrarla. I digiuni, le penitenze e le quotidiane flagellazioni portarono Caterina ad avere visioni ed andare in estasi (si dice che il Caravaggio si sia ispirato a lei nel dipinto “La Maddalena”). Il Borromeo racconta che lei aveva descritto puntualmente i luoghi santi della Palestina pur non essendoci mai stata, ma solo per averli visti nelle sue visioni. Come per tutti i santi, alle visioni di Dio si alternavano le tentazioni, così aumentavano le penitenze e di conseguenza anche gli stati di estasi.

Il Borromeo non mancava mai di farle visita ogni volta che passava da Siena ed iniziò anche una fitta corrispondenza della quale sono rimaste le lettere che lei scriveva al Cardinale, mentre le risposte venivano distrutte da Caterina dopo averle lette.

Morì il 30 luglio 1606 per l’aggravarsi dell’anasarca, allora detto idropisia, provocato dai lunghi digiuni e dalla mancanza di proteine.

Ad attendere Caterina, nel 1584, alla porta del Monastero delle Convertite troviamo il terzo personaggio della nostra storia che ci riporta a San Casciano: Frate Arcangelo.

 Chi era Frate Arcangelo che nel 1584 accolse Caterina Vannini al Monastero delle Convertite di Siena e ne fu il suo confessore?

Innanzitutto era un sancascianese, così famoso all’epoca da essere ricordato da Isidoro Ugurgieri Azzolini nella sua “Relazione delli Huomini e Donne illustri di Siena e suo Stato” del 1649.

Arcangelo era un frate dell’ordine di San Domenico, laureatosi all’Università di Padova, il che ci fa pensare che potesse provenire da una delle famiglie più illustri di San Casciano di quel periodo: Manni, Priori, Starni, Drelli o Fabbrucci.

Non sappiamo quando è nato, ma solo quando è morto: il 29 ottobre dell’anno 1588; essendo già anziano, possiamo ipotizzare la sua nascita nei primi decenni del ‘500.

Dopo la laurea ottenne il titolo di Maestro di Studio e per questo è ricordato anche come Fra Arcangelo de’ Maestri.

Come Federigo e Caterina ebbe una vita da santo senza salire agli onori degli altari. Un altro aspetto che lega i tre personaggi che, a loro volta, riportano a San Casciano.

Dapprima fu Maestro di Studio, Baccelliere Biblico e Reggente del Convento di Treviso, poi fu Reggente di quello di Siena, quindi a Firenze in Santa Maria Novella ed infine a Città di Castello.

Fu reggente di Teologia anche nel monastero di Vallombrosa, dove gli fu riconosciuto il merito di aver portato quella materia nel loro convento.

Tornato a Siena e considerato esperto nelle “materie morali” era ricercatissimo dal clero, dai nobili e dal popolo per avere consigli. Tra coloro che si rivolgevano a lui l’Uguergieri ricorda i vescovi Alessandro Piccolomini e Claudio Borghesi. L’Arcivescovo di Siena gli fece leggere i Casi di Coscienza in Duomo con gran concorsi di uditori.

Contribuì alla traduzione dell’opera di Giovanni Pierio Valeriano “Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum aliarumque gentium litteris commentariorum libri LVIII” traducendo il XVIII libro “Dell’avoltore”.

Raggiunse così una notevole fama, tanto da essere nominato dal Vescovo di Mantova come suo teologo, ma il carattere contemplativo di Arcangelo gli fece rifiutare l’offerta nonostante ponesse le premesse per una carriera ecclesiastica più elevata.

Oltre ad essere eminente nelle lettere e nella teologia, l’Ugurgieri ci ricorda che gli veniva riconosciuta un’altra dote, quella della bontà e per questo si ritrovò ad essere chiamato al nascente monastero delle Convertite di Siena, dove incontrerà Caterina Vannini.

Lo stesso Federigo Borromeo, nel cap. VII della biografia di Caterina Vannini, ricorda il frate sancascianese: «nella sua ultima vecchiezza si ritrovava: ed essendo santamente vissuto, con aver recato giovamento a molti con l’esempio, e con l’opera, dall’umane miserie si dipartì». Ma ci ricorda anche in questi ultimi giorni di vita, ormai infermo, Arcangelo fu preso dai dubbi circa la propria fede, e per questo suor Caterina gli venne in soccorso: «levata in ispirito, ed uscita dai naturali sentimenti, venne al letto del detto Frate, stando a’ piedi di lui, e parendole avere una spada in mano, faceva vista di difenderlo; e appresso ardentemente pregava Dio che le tentazioni, e le molestie che doveva egli soffrire, tutte sopra di sé venissero». L’intervento di Caterina fu decisivo per la salvezza dell’anima di Arcangelo, la suora, infatti, circa un mese dopo ebbe la visione «che l’anima di Frate Arcangelo le era apparita come vestita di bianco, e molto lieta; e appresso, aver veduto esserne stata portata al Cielo». Caterina confermò anche al frate cappuccino Bernardino Lombardelli che l’anima del Maestro Arcangelo non aveva bisogno di suffragi.

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